OPINION PAPER
Le mutilazioni genitali femminili rimangono oggi un problema rilevante non solo in alcune aree geografiche del pianeta dove sono state tradizionalmente ampiamente descritte ma anche in contesti apparentemente inaspettati.
Infatti, nel contesto del massiccio processo di globalizzazione in atto, i flussi migratori a partire da comunità storicamente praticanti le mutilazioni genitali femminili hanno implementato la probabilità di incontro con queste pratiche culturali/religiose anche in paesi dove non erano state osservate o descritte prima.
Questo evento ha suscitato una forte reazione nel tentativo di impedire la continuazione dell’usanza delle mutilazioni genitali femminili nelle popolazioni migranti culturalmente inclini a questa pratica, in particolare nei paesi europei con strutture sociali multietniche e multiculturali.
La risposta legislativa ha seguito un percorso parallelo alla reazione sociale e culturale nella direzione di limitare queste pratiche, oscillando tra norme fortemente repressive del fenomeno e tentativi di mediazione tra tradizione e diritti individuali.
In particolare, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha preso una linea di ferma condanna delle mutilazioni genitali femminili indicandole come una violazione dei diritti umani e del diritto alla salute, come una forma estrema di discriminazione e tortura. Sulla stessa linea, ad esempio, la legislazione britannica ha definito le mutilazioni genitali femminili come illegali nel Regno Unito, richiedendo agli operatori sanitari e sociali di segnalare tali pratiche.
Nell’ambito delle popolazioni migranti, tuttavia, questo approccio non ha sempre rappresentato un deterrente efficace per ridurre o eliminare la pratica delle mutilazioni genitali femminili. In effetti, diversi studi hanno dimostrato che i migranti provenienti da paesi in cui le mutilazioni genitali femminili erano considerate “normali” non hanno cambiato opinione su questa pratica nonostante il contatto prolungato con contesti non accettanti e l’integrazione nelle società in cui la pratica era condannata.
Nella consapevolezza della difficoltà di sradicare le pratiche ataviche solo attraverso il proibizionismo, sono stati proposti approcci alternativi al problema come ad esempio un contatto transculturale non giudicante basato sul dialogo e sui diritti umani. In alternativa, sono stati proposti gruppi di “auto-aiuto” basati sulla comunità per catalizzare il progresso sociale sull’argomento attraverso informazioni culturalmente appropriate.
Allo stesso tempo, la progressiva modifica della legislazione di alcuni paesi africani in merito alle medicine tradizionali riconosciute come parte integrante del diritto alla salute, ha aperto scenari imprevedibili anche in relazione alle pratiche religiose e culturali tradizionali.
Infine, il processo di ridefinizione culturale e giuridica delle identità di genere in atto in molte società occidentali ha ulteriormente evidenziato la necessità di una profonda riflessione e di una rilettura del tema non più circoscritta alla sfera prettamente femminile.
In questo contesto, la gestione delle mutilazioni genitali femminili nelle popolazioni migranti è un argomento molto impegnativo nel campo della medicina di frontiera. In particolare, il contesto normativo si scontra spesso con tradizioni centenarie e con schemi sociali difficilmente modificabili, soprattutto all’arrivo nel paese di destinazione del progetto migratorio. La rilevazione delle mutilazioni genitali femminili è fortemente limitata all’arrivo di migranti, considerando che spesso non viene riportata dalle donne al colloquio medico e che è possibile far emergere il problema solo con una valutazione ginecologica. L’impatto delle mutilazioni genitali femminili sulla salute mentale e psicologica è gravato anche dall’uso di categorie di valutazione calibrate su sistemi di tipo occidentale.
Il problema essenziale nella medicina di frontiera è il fatto che tutto avviene rapidamente e si svolge all’interfaccia tra due visioni della vita spesso non armoniche: quella della patria e quella della terra di migrazione. Modelli sociali e culturali, la rappresentazione della salute e della malattia hanno spesso un forte impatto sulle singole storie, seppellendole sotto le tradizioni delle persone a cui il migrante appartiene.
In questo contesto il problema prioritario non è come rispondere alle mutilazioni genitali femminili ma come far emergere il problema, come coinvolgere coloro che sono portatori di queste lesioni, come offrire loro possibili soluzioni in modo efficace ma anche non giudicante.
La medicina di frontiera è una disciplina ancora sfumata e non ben definita, ma che si interessa di uno dei momenti più attuali del progetto migratorio: l’interazione tra la medicina del paese di arrivo e i bisogni dei migranti. La sua missione è la corretta risposta ai bisogni di una persona proveniente da un diverso sistema sociale, culturale ed epidemiologico. Tale risposta è adeguata solo se si traduce in un efficace rapporto di tutela della salute e di alleanza con il paziente nonostante le differenze culturali tra erogatore e usufruttuario.
Tuttavia, le barriere incontrate vanno ancora oltre la sensibilità dell’operatore sanitario e la disponibilità del migrante per il rapporto medico-paziente. Esistono infatti ancora grossolane barriere strutturali facilmente rintracciabili nella mancanza di disponibilità di strumenti elementari nella gestione di pazienti provenienti da aree geografiche distanti. Ad esempio, la non definizione dei valori normali per gli esami del sangue comuni è frequente in vaste aree dell’Africa sub-sahariana; per queste popolazioni vengono ancora adottati specifici intervalli di normalità per le popolazioni caucasiche (tributati dal loro passato coloniale). Allo stesso modo, ancora oggi gran parte degli studi clinici che valutano l’adeguatezza degli strumenti diagnostici o l’efficacia/sicurezza dei farmaci arruolano principalmente pazienti caucasici con un piccolo numero di pazienti asiatici e/o africani. Questi aspetti incidono pesantemente sulla qualità complessiva dell’assistenza medica fornita alle popolazioni migranti ma soprattutto all’arrivo quando sono ancora disponibili pochissime informazioni.
La mutilazione genitale femminile rappresenta quindi un tema su cui la medicina delle migrazioni ha trovato una dura prova in relazione alla gestione della salute delle donne migranti. In effetti, questo scenario è uno dei campi di battaglia su cui si gioca la futura fiducia del migrante nelle istituzioni sanitarie del paese ospitante.