Introduzione
Un diritto qualificato come umano, o – rectius – la categoria dei diritti umani è una sfida sia alla giurisprudenza che alla filosofia che attraversa la vita umana in modo trasversale. Anche in un passato profondo, in epoca classica, molti hanno considerato come un essere umano in quanto tale sia degno di protezione: non solo di protezione dei suoi beni, della sua proprietà, dalle usurpazioni esterne, ma degno di proteggere la sua integrità (sia fisica che morale), la sua vita, la sua autodeterminazione, tanto da parte di altri coetanei quanto dall’azione dello Stato, tutt’ altro che sempre legittima. La libera determinazione del pensiero e la disponibilità del proprio corpo sono le categorie più alte in cui può essere racchiuso il concetto di diritti umani. La mutilazione genitale femminile è un argomento complesso e la complessità richiede approcci diversi. In primo luogo, un’idea chiara del diritto nel suo senso più profondo, quello della religione, quelli di concetti come universalità e cogenza della norma e, soprattutto, quello di persona. Questi concetti sono tutti molto presenti nei discorsi quotidiani, nella produzione giurisprudenziale, nella mentalità contemporanea, nelle dichiarazioni e negli impegni assunti a livello internazionale da vari e importanti attori della scena mondiale. Tuttavia, il mondo è lontano da questa unificazione di norme e dalla loro applicazione uniforme. Gli avvocati hanno il chiaro dovere di evidenziare questa lacuna. Diversi Stati hanno riconosciuto il loro dovere di intervenire e hanno assunto impegni sottoscrivendo specifiche dichiarazioni. Il mondo non ha bisogno di ulteriori proclami ma di una tutela effettiva e uniforme dei diritti umani.
Diritto umano, diritto divino?
È particolarmente importante sottolineare che il tema dei diritti umani non riguarda solo il diritto di una religione o quello degli individui, o quello dei singoli sistemi giuridici a livello statale. I diritti umani sono una questione che è apparsa molto tardi nel pensiero giuridico: si è mostrata all’attenzione dei giuristi già nella modernità. Tuttavia, è presente – nella sua natura e nelle sue funzioni – fin dalle profondità della storia, dato che nella sua concezione filosofica i diritti umani sono apparsi e hanno attirato l’attenzione dei pensatori molto prima della modernità. Il concetto è stato inespresso anche nelle profondità del pensiero giuridico, perché (forse l’unico caso possibile) porta alla domanda per eccellenza, la domanda delle domande. Esiste già una legge una volta che l’individuo esiste, o la legge esiste solo se è sistematizzata, cioè una volta che è riconosciuta da un sistema giuridico, definendo così una relazione tra più individui e un sistema di diritto? Il diritto è un prodotto della storia, come una certa concezione materialistica ha inteso insegnare, o lo trascende? Ha bisogno di legittimità?
In Occidente,
È comunemente accettato che “ubi societas, ibi jus”. È sempre stato un motto quasi introduttivo alla realtà giuridica, un marchio indiscutibile, una concezione tipica che ha origine nell’antichità della dottrina giuridica o, rectius, nelle basi della sua concezione analitica. Santillana diceva che l’ermeneutica, quindi l’interpretazione, non è il frutto della conoscenza ma la ricerca dell ‘“ultimo e più colorato albero nel giardino della conoscenza”. Cosa cogliamo allora se andiamo a interpretare il motto nella sua radice più profonda?
In Occidente, il diritto è nato come funzionale al rapporto tra gli individui e le cose, ciò che in una prospettiva civile moderna potremmo definire beni. L’esperienza giuridica occidentale ha iniziato a proteggere le relazioni, in particolare quelle economiche. I primi diritti sono stati concepiti se in rem, quindi legati ad una res, appunto ad una cosa di valore economico.
Oggetto del diritto era dunque, come detto, la tutela della proprietà (compresa ovviamente quella collettiva) che diventava, ove possibile, oggetto di maggiore tutela, quella degli Dei. Tutti ricordiamo che Giove era il custode dei patti, e non è un caso che si parli di santità dei contratti. Insomma, la presenza del divino interveniva a proteggere la parola data, e le ricchezze che venivano trasferite, ma suggeriva anche la corrispondenza dell’ordine giuridico a qualcosa di non solo umano, ma superiore: l’ordine divino. Torneremo su questo punto, apparentemente distante, che invece riguarda molto da vicino i diritti umani.
Il diritto si è evoluto e si è evoluto secondo lo sviluppo delle società, delle sensibilità delle persone che le hanno costituite, della concezione filosofica dell’esistenza e dell’avere che i diversi popoli hanno accettato e prodotto nel divenire storico. Il concetto di diritti umani, d’altra parte, sembra essere tardivo. Filosoficamente, specialmente nell’ambiente greco classico, c’era davvero un rispetto per la persona in quanto tale. Aristotele ne parlava nell’Etica nicomachea, ma in un contesto – quello della Grecia classica – in cui in realtà non esisteva un concetto sistematico di diritto. Aristotele parla infatti di correttezza politica, e non tecnicamente di diritto.
Nel pensiero religioso cristiano, che condivide molto con il pensiero islamico, l’idea di legge proveniente dalla natura come ordine costituito da Dio è forte in Tommaso d’Aquino, in quel periodo erroneamente definito “Medioevo” in cui tanto è stato elaborato. La posizione di Tommaso è lucida e chiara, e coglie molto dal cristianesimo ma anche da quei concetti giuridici (primo fra tutti quello del diritto stesso). In lui i diritti sono principi, sono di natura etica e sono, soprattutto, “generalissimi”. È interessante notare che questo è un riferimento a una legge che scarta il formalismo e la specificità, a una legge che si riferisce non a una norma fatta dall’uomo ma solo percepita da quest’ ultimo come esistente nell’ordine strutturato da Dio. È un concetto generale che trascende e non ha bisogno né dell’autorità politica che lo formalizza né della penna del giurista che lo elabora. I diritti sono sempre esistiti e non vengono generati ma riconosciuti. È un salto importante, forse il salto che porta al riconoscimento dei diritti umani.
Come accennato in precedenza, è solo la modernità a far nascere i diritti considerati “umani”, cioè quei diritti esistenti perché l’essere umano è di per sé il suo titolare. Sarebbe la fine della concezione del diritto come regolamentazione di un rapporto tra cose o persone: non solo ubi societas, ma anche ubi homo, ibi jus: la legge c’è una volta che c’è un solo uomo.
E la chiave per riconoscere i diritti umani sta nel diritto della natura di Tommaso, nel diritto naturale: è in questa concezione che si aprono le porte al riconoscimento del diritto umano in senso tecnico e negli ordinamenti giuridici con strumenti moderni. Il diritto varca i confini dei singoli ordinamenti e si riconosce qualcosa di comune, o – per meglio dire – universale: nasce il diritto internazionale, lo jus gentium in senso moderno, e questo porta a chiedersi quali fonti esso riconosca, una fonte che non può che essere comune a tutti. Alcuni di questi diritti, quindi, sono noti come inalienabili e naturali e trovano la loro formulazione durante l’Illuminismo.
Tale processo porterebbe infine a riconoscere i diritti umani in senso tecnico, come norma effettiva (jus cogens).
La legge umana esiste ed esiste perché c’è un essere umano. L’umanità lo riconosce, prima lo vede, poi lo formalizza.
A est.
L’Islam è un sistema legale. Tutta la creazione è soggetta a Dio, è ideato l’Islam, cioè la sottomissione alle sue leggi. La norma religiosa, la sharia, è quel comportamento dovuto dall’uomo perché possa essere musulmano, cioè parte coerente e integrante dell’ordine divino. Questo ci aiuta a capire almeno due cose, entrambe di fondamentale importanza: la prima è che nell’Islam l’unico legislatore è Dio, la seconda è che l’uomo ha la mera funzione di interpretare la legge.
L’Islam si è espanso in diversi territori, portando con sé la necessità di fare della moltitudine un unicum. Questa unicità è riconosciuta nell’atteggiamento islamico di riconoscere un unico ordine di cose, un’unica legge, e di conformare l’azione di tutti alla volontà divina.
Il testo di riferimento è, ovviamente, il Corano, che alcune scuole di pensiero considerano addirittura inseparabile da Dio stesso. Un testo di riferimento che non dovrebbe essere contraddittorio, non superabile. Una fonte del diritto apicale e insuperabile, alla quale – dunque – deve attenersi ogni altra fonte o norma subordinata. Sarebbe assurdo cercare di sintetizzare in un unico articolo la ricchissima storia del pensiero giuridico islamico, la lotta per le fonti e la loro validità, e la legittimità di guidare il popolo islamico e di uniformarlo sotto un’unica legge. È necessario, tuttavia, richiamare l’attenzione su come la legge islamica ha elaborato la sua terminologia per designare una fonte specifica della sua legge, letta in due significati distinti: è il concetto di “tradizione”, che nel linguaggio giuridico islamico in arabo è reso con Sunnah.
Mutilazioni genitali femminili: non è un’istituzione giuridica islamica
All’inizio della storia islamica (intorno all’anno ‘200 dell’Egira, ovvero due secoli dopo l’inizio della predicazione di Maometto) la Comunità islamica inizia a scrivere aneddoti che risalgono alla vita del Profeta stesso. Questi sarebbero un’ulteriore fonte di ispirazione per i musulmani, aiutandoli – seguendo l’esempio infallibile del Profeta e dei suoi primi compagni – a condurre una vita migliore e a colmare quelle lacune che, a causa della loro imperfezione umana, non permettono loro di comprendere l’integrità del Corano e di astrarre la retta via da seguire in ogni occasione della vita. Una serie di studiosi certificherà se e a quale livello ogni hadith (questo è il nome della storia) è autentico e può essere riferito. Questo meccanismo è fondamentale nella concezione della legge della via islamica, nella sua ricezione dei diritti umani e nella questione delle mutilazioni genitali femminili.
Infatti, quando l’Islam si espande si scontra con una serie di tradizioni, cioè la cultura e le identità dei convertiti. L’Islam incontra un mondo già molto ricco di tradizione. Qui arriva la diversa interpretazione della legge operata dai diversi dottori della legge, chiamati a elaborare un giudizio di legittimità sulle consuetudini riscontrabili tutt’ intorno ai territori ritrovati: i risultati derivanti dalla loro interpretazione sono sorprendentemente diversi.
Quando l’Islam incontra l’Africa, in alcune delle sue terre le mutilazioni genitali sono già lì. Non ci sono prove o indizi che ci portino a credere che la mutilazione genitale femminile sia stata generata dall’Islam, ma piuttosto che i musulmani abbiano trovato quell’ abitudine e che i nuovi convertiti abbiano continuato a usarla. Quella, nel tempo, si è appena consolidata e percepita come un’abitudine islamica. Alla fine, la vecchia legge, che è anche sunnah (come tradizione) e la nuova legge si confusero e diedero agli osservatori l’idea che stavano semplicemente seguendo la legge islamica, senza discernere una fonte dall’altra, e le abitudini pre-islamiche da quelle islamiche.
La base giuridica che dovrebbe garantire la conformità delle mutilazioni genitali femminili alla norma islamica è un hadith, uno di quelli che non erano considerati autentici, che invita chi interviene sulla donna a farlo “gentilmente” perché questo renderebbe più radioso il volto della donna. Un’ulteriore nota linguistica è importante a questo proposito: la circoncisione si chiama “tahara”, che rimanda a un concetto di purificazione. Ciò comporterebbe quindi l’asportazione di parte dell’apparato genitale in quanto considerata “sporca” nel senso di impedire lo stato di purezza in cui il musulmano deve trovarsi nel momento in cui compie determinati atti o vive alcuni momenti di particolare significato religioso. Il fenomeno risente quindi di tutte quelle condizioni psicologiche e sociali che portano una comunità a irrigidirsi nelle sue pratiche difensive in presenza di un rischio percepito: qui, nell’era del Covid, dopo 30 anni di continua diminuzione si è assistito a una ripresa di questa pratica, insieme a un abbassamento dei limiti di età a cui sono sottoposte le bambine (in Mali si arriva addirittura a colpire bambine di due anni o meno). Ciò comporta serie difficoltà nel trovare le vittime, e ancor più nello sviluppare strumenti di risposta – o prevenzione – in grado di abbattere un fenomeno che ormai si ritiene non abbia nulla a che fare con la religione ma con pratiche e superstizioni radicate nel tempo.
In particolare, il fenomeno è probabilmente legato al rito di passaggio, tipico del difficile momento di transizione tra la giovinezza e l’età adulta.
Impegni sulle mutilazioni: la necessaria risposta globale
Una svolta di grande importanza, che riguarda sia il riconoscimento dei diritti umani sia la specifica dignità della donna e la sua integrità fisica, è il Protocollo alla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa (c.d. “Protocollo di Maputo”) dell’Unione Africana, datato 2003. Il documento ha una funzione e un’importanza profonde, nonostante l’assenza tra i firmatari di importanti attori del continente africano come Egitto e Marocco.
Il Protocollo fonda la sua efficacia e legittimità su diverse fonti, alle quali si rimanda nelle considerazioni preliminari:
Innanzitutto, l’articolo 66 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, che prevede l’adozione di protocolli o accordi speciali in caso di necessità, per attuare le disposizioni della Carta,
In secondo luogo, la Conferenza dei capi di Stato e di governo dell’Organizzazione dell’unità africana ad Addis Abeba nel 1995, che ha ratificato la raccomandazione della Commissione africana per i diritti dell’uomo e dei popoli di elaborare un protocollo sui diritti delle donne in Africa,
In tertiis l’articolo 2 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, che vieta ogni forma di discriminazione, quindi anche di genere, o qualsiasi altra situazione discriminatoria.
Questo protocollo, che consta di 32 articoli, ha l’importanza fondamentale di costituire un obbligo effettivo e reale nei confronti dei Paesi ratificanti: l’impegno è quello di far riconoscere alle varie legislazioni, attraverso le opportune riforme del diritto interno, diritti fondamentali quali la dignità, la vita, il consenso effettivo alla celebrazione del matrimonio e soprattutto l’eliminazione di tutte le pratiche che consistono in atti lesivi dell’integrità fisica e psichica. delle donne, menzionando esplicitamente le mutilazioni genitali femminili nell’articolo 5.
Questo articolo, intitolato “eliminazione delle pratiche dannose”, prevede che gli Stati membri “vietino e condannino tutte le forme di pratiche dannose che ledono i diritti umani delle donne e sono contrarie agli standard internazionali”, e “prendano tutte le misure, legislative e non, per sradicare queste pratiche”. , per sensibilizzare tutti i settori della società, per vietarli con misure legislative combinate con sanzioni, per proteggere le donne che rischiano di essere sottoposte a pratiche dannose o a qualsiasi altro tipo di violenza, abuso e intolleranza. La norma prevede quindi azioni sia preventive che repressive.
In Italia sono circa 90.000 le donne sottoposte a questa pratica. Un numero significativo che dovrebbe far riflettere sull’efficacia degli strumenti messi a disposizione, anche al di fuori dei territori a maggioranza islamica. Nel 2006 la Legge n. 7 (c.d. “Legge Consolo”) introduce nuovi casi per rafforzare la tutela contro il fenomeno delle mutilazioni. Sono aggiunti gli articoli 583 bis, 583 ter, che prevedono la pena da 4 a 12 anni di reclusione, aumentata di un terzo se commessa nei confronti di minori. L’elemento materiale del reato è la causa della mutilazione in assenza di esigenze terapeutiche: evidente, quindi, anche se non espresso, il riferimento al Protocollo di Maputo. Si tratta quindi di un’ulteriore forma di internazionalizzazione e omogeneizzazione del diritto, in questo caso assunta da un paese europeo a imitazione di uno strumento giuridico africano.
Conclusioni
La mutilazione genitale femminile non deve essere riconosciuta come un’istituzione giuridica islamica né come una pratica obbligatoria all’interno di una comunità islamica, ma piuttosto come una reliquia di culture e prassi precedenti diffuse su un territorio che in seguito sarebbe diventato islamico e avrebbe mantenuto le sue antiche tradizioni. Ad oggi non esistono adeguate politiche di contrasto perché gli impegni assunti da molti Stati e organizzazioni non hanno trovato alcun effetto al di fuori delle dichiarazioni solenni. Gli strumenti giuridici esistenti sono per la maggior parte obbligatori, ma non si sono dimostrati né sufficienti né efficaci: va sottolineato che ciò che manca non è lo strumento giuridico – che si manifesta nel protocollo di Maputo e in altre diverse fonti internazionali che, essendo richiamate nel protocollo stesso, possono essere riconosciute solo da tutti i firmatari -. Tuttavia, mancano di capacità e volontà di adempiere agli obblighi. Vale la pena ricordare l’ordinamento giuridico sudanese, che dal 2020 punisce le mutilazioni con una pena di soli 3 anni di reclusione.
Una forma minima di protezione contro una pratica che, lontana dalle norme della fede, costituisce un’evidente umiliazione dell’integrità psicologica e fisica delle ragazze oltre che una pratica invalidante.